La Grande Guerra sull’Altopiano dei Sette Comuni
La Prima Guerra Mondiale ha profondamente segnato il territorio dell’Altopiano dei Sette Comuni che dal maggio 1915 al novembre 1918 divenne un immenso campo di battaglia su cui combatterono migliaia di soldati di nazioni, lingue e tradizioni differenti.
L’Altopiano fu infatti teatro di alcune tra le più sanguinose battaglie combattute sul fronte italiano (la Strafexpedition del maggio e giugno 1916, la battaglia dell’Ortigara del giugno 1917, la Battaglia del Solstizio del giugno 1918….per citarne alcune): battaglie che provocarono la morte di migliaia di soldati, ma che causarono anche la pressoché totale distruzione dei paesi e delle attività economiche come pure la devastazione della maggior parte dei boschi.
Come ricordava infatti nel 1931 lo scrittore vicentino Giuseppe De Mori
“…di fiorenti centri abitati, come Asiago, Gallio, Foza, Tresche-Conca, Roana e Rotzo non rimase più quasi il nome: in dette località, come in altre dell’Altopiano stesso e dei punti più battuti della Val Brenta, la percentuale dei fabbricati interamente distrutti e resi completamente inabitabili raggiunse l’altissima quota del 95 per cento. E questo senza tener conto del danno incalcolabile e della distruzione dei magnifici boschi di cui il Veneto era giustamente superbo, nonché dell’ingombro delle valli montane per i detriti delle opere militari”.
La costruzione dei forti
Tra il 1908 ed il 1914, nonostante il patto di alleanza sottoscritto a Vienna nel maggio del 1882 (“la Triplice alleanza“), il Regno d’Italia e l‘Impero Austro-Ungarico avviarono un’imponente opera di fortificazione del confine.
Così anche sull’Altopiano, da secoli “terra di confine”, oltre alla costruzione di numerose opere difensive “minori” quali le batterie in caverna di Bocchetta Portule e di Coldarco, le batterie provviste di difese laterali del Monte Rasta e Canove di Sotto e, ancora, le postazioni d’artiglieria del Verenetta, di Bosco Arzari e di Porta Manazzo, negli anni antecedenti lo scoppio della prima guerra mondiale vennero realizzati i forti italiani di Punta Corbin, di Cima Campolongo e di Monte Verena (che si contrapponevano alle fortezze austriache degli altipiani di Lavarone e Vezzena) e, verso est, il forte di Monte Lisser il più moderno tra i forti italiani – che con il forte di Cima Campo doveva controllare l’importante via di comunicazione della Valsugana e del Canale del Brenta.
1915
Come ricordano le cronache dell’epoca, alle ore 3,55 del 24 maggio 1915 il forte Verena, seguito subito dopo dal forte Campolongo, sparò il primo colpo di cannone dando così inizio alle ostilità sul fronte dell’Altopiano.
I reparti italiani, superata la linea di confine, si posizionarono a ridosso della linea difensiva austriaca che con i forti Luserna, Busa Verle e il forte-osservatorio dello Spitz Verle controllava la Piana di Vezzena, occupando la dorsale dei Marcai e del Costesin. Le prime settimane di guerra furono caratterizzate da un vero e proprio duello a distanza tra le fortezze contrapposte (la cosiddetta “guerra dei forti”) nel quale i forti italiani del Verena e del Campolongo e, soprattutto, le batterie da 280 posizionate a Porta Manazzo e lungo le pendici del Verena riuscirono a danneggiare pesantemente i forti avversari di Busa Verle e Luserna. Nei primi giorni del mese di giugno, tuttavia, vennero portati nella zona di CostAlta, a ridosso della finca austriaca, alcuni nuovi mortai Skoda da 305 mm ed il 12 giugno proprio una granata da 305 mm riuscì a penetrare all’interno del locale sottostante la cupola n. 3 del forte Verena causando la morte di 44 artiglieri e del loro comandante. La presa d’atto della debolezza delle fortezze italiane, che erano state progettate per resistere al tiro di artiglierie equivalenti a quelle di armamento (149 mm), indusse i Comandi italiani a ordinare, il 2 luglio 1915, il disarmo dei forti situati nel campo di tiro dei nuovi mortai austriaci.
Il 24 agosto 1915, nonostante il Comando Supremo italiano avesse assegnato al settore vicentino un ruolo eminentemente difensivo, la 34° Divisione italiana attaccò le posizioni austriache del caposaldo del Basson nel tentativo di aprirsi la strada verso Trento, Gli assalti reiterati portati dai reparti della brigata Treviso si risolsero però in modo disastroso con la perdita di quasi 1100 effettivi tra i quali lo stesso col Riveri, comandante del 115 reggimento, che venne fatto prigioniero.
1916
Nel corso dell’inverno 1915-1916, il Capo di Stato Maggiore austro-ungarico, feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf, avviò l’elaborazione di un ambizioso piano strategico per attaccare l’Italia che, impegnando due armate (la XI e la III Armata), con l’appoggio di ben 1150 pezzi di artiglieria, doveva consentire agli austroungarici di sfondare le difese italiane degli altipiani e calare nella pianura veneta.
L’operazione, definita come “offensiva di primavera“, ma che ben e calate presto assunse il nome popolare di Strafexpedition (una spedizione punitiva contro il “traditore” italiano), prese avvio il 15 maggio 1916 nel settore compreso fra Rovereto e la sella di Carbonare travolgendo le male organizzate difese italiane. Il 20 giugno l’attacco si estese all’Altopiano dove, dopo un violento concentramento di fuoco delle artiglierie austriache e due giorni di lotte accanite I i reparti i italiani furono costretti a ripiegare. Dopo aver conquistato anche la dorsale. volgendo le truppe italiane che la presidiavano gli austro-ungarici dilagarono sia del Portule travolgendo le verso est che verso sud, attraverso la Val d’Assa, fino ad occupare i paesi e i villaggi della conca centrale ormai abbandonati alle fiamme. Gli italiani ripiegarono sulle precarie linee delle Melette di Foza, del Sisemol, del Kaberlaba, del Lémerle e dello Zovetto. Nonostante la perdita dell’acrocoro del Cengio, che il 3 giugno cadde in mano austriaca, ed i reiterati assalti contro le posizioni delle Melette di Foza e del Lemerle – Zovetto, a sud di Cesuna, il Cesuna, il rafforzamento della resistenza italiana, complice il forte logoramento delle truppe austriache e la difficoltà di far avanzare le artiglierie, impedirono agli austriaci di calare nella pianura vicentina. Così il 16 giugno il feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf, trendorf, capo dello stato maggiore austro-ungarico. decretò la fine dell’offensiva ed il 24 dello stesso mese gli austriaci ripiegarono occupando una nuova poderosa linea difensiva che correndo lungo il ciglio della Val d’Assa, di fronte a Rotzo Roana, saliva poi allo a allo Zebio e quindi, piegando decisamente verso nord, raggiungeva il mas siccio dell’Ortigara toccando i monti Colombara, Forno, Chiesa e Campigoletti. I reparti italiani i lanciarono all’inseguimento si arrestandosi tuttavia contro le nuove posizioni austriache. Nel corso dell’estate sia sullo Zebio che contro l’Ortigara gli italiani tentarono ripetutamente di for rare le difese austriache senza tuttavia conseguire alcun significativo risultato. La controffensiva italiana si sviluppò infatti con una serie di attacchi affrettati, caparbiamente reiterati dai comandi superiori, in genere senza un adeguato appoggio delle artiglierie, che si risolsero in uno sterile dissanguamento dei reparti.
I comandi italiani avviarono quindi lo studio di una grande offensiva che doveva portare alla riconquista della parte nord dell’Altopiano: l’ “Operatione K” (che diverrà poi tristemente famosa come la Battaglia dell’Ortigara) che programmata inizialmente per la fine di ottobre, venne tuttavia rinviata alla primavera successiva a causa delle precoci nevicate.
1917-18
Per l’offensiva era stata costituita una apposita armata (la 6^ Armata) forte di 1500 bocche da fuoco e di ben 300.000 uomini tra i quali va ricordata la 52 Divisione alpina cui era stata affidata la conquista dell’Ortigara.
Il piano offensivo italiano prevedeva infatti un massiccio di mezzi e di truppe allo scopo di sfondare tutto il fronte a nord di Asiago, dal Mosciagh, Ortigara, e raggiungere la dorsale del Portule. La grande battaglia prese l’avvio alle 5 del mattino del 10 giugno 1917 con un possente bombardamento italiano su tutto il fronte nord dell’Altopiano. I reparti italiani si lanciarono all’attacco delle posizioni austriache del Monte Ortigara, del Monte Forno e dello Zebio senza tuttavia raggiungere gli obiettivi assegnati. Solo sull’Ortigara i battaglioni alpini della 52ª Divisione riuscirono ad occupare le munitissime posizioni austriache di quota 2003 e quindi a conquistare la sovrastante quota 2101. Dopo nove gomi di accanita battaglia il giorno 19, dopo una violenta preparazione delle artiglierie, gli ita liani si lanciarono nuovamente all’assalto occupando la cima principale dell’Ortigara (la 2105) mentre sul resto del fronte non si registrarono ulteriori successi. Una settimana dopo, tuttavia, il 25 giugno, i reparti d’assalto austriaci contrattaccarono rioccupando l’intera dorsale dell’Ortigara e costringendo gli italiani a rientrare definitivamente nelle trincee di partenza. L’operazione “K” era costata la perdita di quasi 25.000 soldati italiani, contro circa 9.000 austriaci.
Dopo un’estate di relativa calma, a seguito dello sfondamento austrotedesco di Caporetto anche sull’Altopiano gli eventi precipitarono costringendo i Comandi italiani ad ordinare il ripiegamento sulle Melette dei reparti posizionati tra lo Zebio e l’Ortigara per allineare così il fronte dell’Altopiano a quello del massiccio del Monte Grappa. Dalla metà del mese di novembre le mappe imperiali lanciarono una serie di violenti attacchi contro le nuove posizioni occupate dagli italiani nel tentativo di calare verso il Canale del Brenta e Bassano. quei monti (Badenecche, Tondarecar, Castelgomberto, Fior, Spil e Miela), si combatté furiosamente per due settimane fino al 4 di dicembre quando una decisa penetrazione di reparti austriaci all’interno delle linee italiane costrinse i difensori, ormai privi di viveri e munizioni, a ripiegare disordinatamente a sud della Val Frenzela, sui monti Valbella, Col del Rosso e Col Ecchele (i “Tre monti”). Le perdite del XX e del XXII Corpo d’Armata italiano assommarono a quasi 19000 soldati (di cui ben 14000 prigionieri).
Il nuovo assalto austriaco portato all’antivigilia di Natale contro le nuove posizioni dei “Tre monti” costrinse i reparti italiani ad un ulteriore ripiegamento del fronte ma alla fine di gennaio, con un brillante contrattacco, i reparti italiani riuscirono a riconquistare le posizioni perdute arrestando definitivamente l’offensiva austriaca.
Nel giugno 1918 l’Austria-Ungheria decise di lanciare un’ultima offensiva nel tentativo di chiudere la partita con l’Italia. Anche sull’Altopiano, tuttavia, i reparti italiani ed alleati (francesi e britannici) resistettero all’urto se si esclude solamente un momentaneo ripiegamento nella zona di Cesuna, difesa dal Corpo di spedizione britannico, e la perdita dei “Tre monti”. Il 30 giugno tuttavia gli italiani contrattaccarono con decisione rioccupando definitivamente Col del Rosso, Valbella e Col d’Ecchele e catturando quasi 2000 prigionieri austriaci decretando così il fallimento dell’offensiva.
Il 24 ottobre 1918 con l’avvio dell’offensiva “Vittorio Veneto”, i reparti italiani ed alleati si lanciarono all’attacco delle posizioni nemiche scontrandosi con la strenua resistenza degli avversari. Dopo alcuni giorni di aspri combattimenti, tuttavia, una decisa penetrazione italiana al centro dello schieramento austro-ungarico costrinse il Comando della Armate del Tirolo ad ordinare il ripiegamento verso la linea fortificata degli Altipiani di Folgaria e Lavarone per tentare un’ultima disperata resistenza.
Ma la guerra era ormai giunta alla fine e, con la firma dell’armistizio a villa Giusti, presso Padova, 14 novembre 1918 anche sull’Altopiano cessava definitivamente il frastuono delle armi. Dopo oltre tre anni di combattimenti, sull’Altopiano rimanevano soltanto boschi distrutti, pascoli sconvolti e paesi ridotti ad un cumulo di macerie oltre a migliaia di caduti raccolti nei cimiteri di guerra sparsi sul territorio.
La costruzione dei forti
Tra il 1908 ed il 1914, nonostante il patto di alleanza sottoscritto a Vienna nel maggio del 1882 (“la Triplice alleanza“), il Regno d’Italia e l‘Impero Austro-Ungarico avviarono un’imponente opera di fortificazione del confine.
Così anche sull’Altopiano, da secoli “terra di confine”, oltre alla costruzione di numerose opere difensive “minori” quali le batterie in caverna di Bocchetta Portule e di Coldarco, le batterie provviste di difese laterali del Monte Rasta e Canove di Sotto e, ancora, le postazioni d’artiglieria del Verenetta, di Bosco Arzari e di Porta Manazzo, negli anni antecedenti lo scoppio della prima guerra mondiale vennero realizzati i forti italiani di Punta Corbin, di Cima Campolongo e di Monte Verena (che si contrapponevano alle fortezze austriache degli altipiani di Lavarone e Vezzena) e, verso est, il forte di Monte Lisser il più moderno tra i forti italiani – che con il forte di Cima Campo doveva controllare l’importante via di comunicazione della Valsugana e del Canale del Brenta.
1915
Come ricordano le cronache dell’epoca, alle ore 3,55 del 24 maggio 1915 il forte Verena, seguito subito dopo dal forte Campolongo, sparò il primo colpo di cannone dando così inizio alle ostilità sul fronte dell’Altopiano.
I reparti italiani, superata la linea di confine, si posizionarono a ridosso della linea difensiva austriaca che con i forti Luserna, Busa Verle e il forte-osservatorio dello Spitz Verle controllava la Piana di Vezzena, occupando la dorsale dei Marcai e del Costesin. Le prime settimane di guerra furono caratterizzate da un vero e proprio duello a distanza tra le fortezze contrapposte (la cosiddetta “guerra dei forti”) nel quale i forti italiani del Verena e del Campolongo e, soprattutto, le batterie da 280 posizionate a Porta Manazzo e lungo le pendici del Verena riuscirono a danneggiare pesantemente i forti avversari di Busa Verle e Luserna. Nei primi giorni del mese di giugno, tuttavia, vennero portati nella zona di CostAlta, a ridosso della finca austriaca, alcuni nuovi mortai Skoda da 305 mm ed il 12 giugno proprio una granata da 305 mm riuscì a penetrare all’interno del locale sottostante la cupola n. 3 del forte Verena causando la morte di 44 artiglieri e del loro comandante. La presa d’atto della debolezza delle fortezze italiane, che erano state progettate per resistere al tiro di artiglierie equivalenti a quelle di armamento (149 mm), indusse i Comandi italiani a ordinare, il 2 luglio 1915, il disarmo dei forti situati nel campo di tiro dei nuovi mortai austriaci.
Il 24 agosto 1915, nonostante il Comando Supremo italiano avesse assegnato al settore vicentino un ruolo eminentemente difensivo, la 34° Divisione italiana attaccò le posizioni austriache del caposaldo del Basson nel tentativo di aprirsi la strada verso Trento, Gli assalti reiterati portati dai reparti della brigata Treviso si risolsero però in modo disastroso con la perdita di quasi 1100 effettivi tra i quali lo stesso col Riveri, comandante del 115 reggimento, che venne fatto prigioniero.
1916
Nel corso dell’inverno 1915-1916, il Capo di Stato Maggiore austro-ungarico, feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf, avviò l’elaborazione di un ambizioso piano strategico per attaccare l’Italia che, impegnando due armate (la XI e la III Armata), con l’appoggio di ben 1150 pezzi di artiglieria, doveva consentire agli austroungarici di sfondare le difese italiane degli altipiani e calare nella pianura veneta.
L’operazione, definita come “offensiva di primavera“, ma che ben e calate presto assunse il nome popolare di Strafexpedition (una spedizione punitiva contro il “traditore” italiano), prese avvio il 15 maggio 1916 nel settore compreso fra Rovereto e la sella di Carbonare travolgendo le male organizzate difese italiane. Il 20 giugno l’attacco si estese all’Altopiano dove, dopo un violento concentramento di fuoco delle artiglierie austriache e due giorni di lotte accanite I i reparti i italiani furono costretti a ripiegare. Dopo aver conquistato anche la dorsale. volgendo le truppe italiane che la presidiavano gli austro-ungarici dilagarono sia del Portule travolgendo le verso est che verso sud, attraverso la Val d’Assa, fino ad occupare i paesi e i villaggi della conca centrale ormai abbandonati alle fiamme. Gli italiani ripiegarono sulle precarie linee delle Melette di Foza, del Sisemol, del Kaberlaba, del Lémerle e dello Zovetto. Nonostante la perdita dell’acrocoro del Cengio, che il 3 giugno cadde in mano austriaca, ed i reiterati assalti contro le posizioni delle Melette di Foza e del Lemerle – Zovetto, a sud di Cesuna, il Cesuna, il rafforzamento della resistenza italiana, complice il forte logoramento delle truppe austriache e la difficoltà di far avanzare le artiglierie, impedirono agli austriaci di calare nella pianura vicentina. Così il 16 giugno il feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf, trendorf, capo dello stato maggiore austro-ungarico. decretò la fine dell’offensiva ed il 24 dello stesso mese gli austriaci ripiegarono occupando una nuova poderosa linea difensiva che correndo lungo il ciglio della Val d’Assa, di fronte a Rotzo Roana, saliva poi allo a allo Zebio e quindi, piegando decisamente verso nord, raggiungeva il mas siccio dell’Ortigara toccando i monti Colombara, Forno, Chiesa e Campigoletti. I reparti italiani i lanciarono all’inseguimento si arrestandosi tuttavia contro le nuove posizioni austriache. Nel corso dell’estate sia sullo Zebio che contro l’Ortigara gli italiani tentarono ripetutamente di for rare le difese austriache senza tuttavia conseguire alcun significativo risultato. La controffensiva italiana si sviluppò infatti con una serie di attacchi affrettati, caparbiamente reiterati dai comandi superiori, in genere senza un adeguato appoggio delle artiglierie, che si risolsero in uno sterile dissanguamento dei reparti.
I comandi italiani avviarono quindi lo studio di una grande offensiva che doveva portare alla riconquista della parte nord dell’Altopiano: l’ “Operatione K” (che diverrà poi tristemente famosa come la Battaglia dell’Ortigara) che programmata inizialmente per la fine di ottobre, venne tuttavia rinviata alla primavera successiva a causa delle precoci nevicate.
1917-18
Per l’offensiva era stata costituita una apposita armata (la 6^ Armata) forte di 1500 bocche da fuoco e di ben 300.000 uomini tra i quali va ricordata la 52 Divisione alpina cui era stata affidata la conquista dell’Ortigara.
Il piano offensivo italiano prevedeva infatti un massiccio di mezzi e di truppe allo scopo di sfondare tutto il fronte a nord di Asiago, dal Mosciagh, Ortigara, e raggiungere la dorsale del Portule. La grande battaglia prese l’avvio alle 5 del mattino del 10 giugno 1917 con un possente bombardamento italiano su tutto il fronte nord dell’Altopiano. I reparti italiani si lanciarono all’attacco delle posizioni austriache del Monte Ortigara, del Monte Forno e dello Zebio senza tuttavia raggiungere gli obiettivi assegnati. Solo sull’Ortigara i battaglioni alpini della 52ª Divisione riuscirono ad occupare le munitissime posizioni austriache di quota 2003 e quindi a conquistare la sovrastante quota 2101. Dopo nove gomi di accanita battaglia il giorno 19, dopo una violenta preparazione delle artiglierie, gli ita liani si lanciarono nuovamente all’assalto occupando la cima principale dell’Ortigara (la 2105) mentre sul resto del fronte non si registrarono ulteriori successi. Una settimana dopo, tuttavia, il 25 giugno, i reparti d’assalto austriaci contrattaccarono rioccupando l’intera dorsale dell’Ortigara e costringendo gli italiani a rientrare definitivamente nelle trincee di partenza. L’operazione “K” era costata la perdita di quasi 25.000 soldati italiani, contro circa 9.000 austriaci.
Dopo un’estate di relativa calma, a seguito dello sfondamento austrotedesco di Caporetto anche sull’Altopiano gli eventi precipitarono costringendo i Comandi italiani ad ordinare il ripiegamento sulle Melette dei reparti posizionati tra lo Zebio e l’Ortigara per allineare così il fronte dell’Altopiano a quello del massiccio del Monte Grappa. Dalla metà del mese di novembre le mappe imperiali lanciarono una serie di violenti attacchi contro le nuove posizioni occupate dagli italiani nel tentativo di calare verso il Canale del Brenta e Bassano. quei monti (Badenecche, Tondarecar, Castelgomberto, Fior, Spil e Miela), si combatté furiosamente per due settimane fino al 4 di dicembre quando una decisa penetrazione di reparti austriaci all’interno delle linee italiane costrinse i difensori, ormai privi di viveri e munizioni, a ripiegare disordinatamente a sud della Val Frenzela, sui monti Valbella, Col del Rosso e Col Ecchele (i “Tre monti”). Le perdite del XX e del XXII Corpo d’Armata italiano assommarono a quasi 19000 soldati (di cui ben 14000 prigionieri).
Il nuovo assalto austriaco portato all’antivigilia di Natale contro le nuove posizioni dei “Tre monti” costrinse i reparti italiani ad un ulteriore ripiegamento del fronte ma alla fine di gennaio, con un brillante contrattacco, i reparti italiani riuscirono a riconquistare le posizioni perdute arrestando definitivamente l’offensiva austriaca.
Nel giugno 1918 l’Austria-Ungheria decise di lanciare un’ultima offensiva nel tentativo di chiudere la partita con l’Italia. Anche sull’Altopiano, tuttavia, i reparti italiani ed alleati (francesi e britannici) resistettero all’urto se si esclude solamente un momentaneo ripiegamento nella zona di Cesuna, difesa dal Corpo di spedizione britannico, e la perdita dei “Tre monti”. Il 30 giugno tuttavia gli italiani contrattaccarono con decisione rioccupando definitivamente Col del Rosso, Valbella e Col d’Ecchele e catturando quasi 2000 prigionieri austriaci decretando così il fallimento dell’offensiva.
Il 24 ottobre 1918 con l’avvio dell’offensiva “Vittorio Veneto”, i reparti italiani ed alleati si lanciarono all’attacco delle posizioni nemiche scontrandosi con la strenua resistenza degli avversari. Dopo alcuni giorni di aspri combattimenti, tuttavia, una decisa penetrazione italiana al centro dello schieramento austro-ungarico costrinse il Comando della Armate del Tirolo ad ordinare il ripiegamento verso la linea fortificata degli Altipiani di Folgaria e Lavarone per tentare un’ultima disperata resistenza.
Ma la guerra era ormai giunta alla fine e, con la firma dell’armistizio a villa Giusti, presso Padova, 14 novembre 1918 anche sull’Altopiano cessava definitivamente il frastuono delle armi. Dopo oltre tre anni di combattimenti, sull’Altopiano rimanevano soltanto boschi distrutti, pascoli sconvolti e paesi ridotti ad un cumulo di macerie oltre a migliaia di caduti raccolti nei cimiteri di guerra sparsi sul territorio.
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